Storia D'Italia vol. 10-14 by Indro Montanelli
autore:Indro Montanelli
La lingua: ita
Format: mobi
pubblicato: 2010-12-28T16:19:20+00:00
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO.
ROMA DOPO AVIGNONE.
L'ESILIO del Papato ad Avignone, lo abbiamo già detto, era stato per Roma una catastrofe.
All'alba del Quattrocento, la città occupava una superficie dieci volte inferiore a quella dei tempi d'Aureliano e coi suoi sessantamila abitanti era meno popolosa di Milano, Venezia e Firenze. Le mura erano diroccate, le torri mozze e sbrecciate, le strade disselciate e affogate in pozzanghere fetide e melmose, gli acquedotti intasati e slabbrati rendevano difficoltoso e precario il rifornimento idrico, e molti Romani erano ridotti a bere l'acqua del Tevere. Pestilenze e carestie decimavano la popolazione più delle guerre.
Lo stato di disfacimento e di abbandono non âra limitato ai rioni popolari e di periferia. In
vestiva anche il centro. I Fori erano trasformati in putridi catini, il Colosseo e il teatro di Marcello erano adibiti a depositi d'immondezza, e il Campidoglio era costellato di catapecchie sbilenche e maleodoranti. Vacche, pecore, maiali pascolavano sui sagrati delle chiese. Molte chiese, sebbene aperte al culto, avevano l'aspetto di ruderi, e i palazzi apostolici avevano perduto il nitore e il fasto d'un tempo. Col buio nessuno osava uscir di casa e avventurarsi per le strade, propizie agli agguati e infestate dai briganti. La vigilanza notturna era scarsa e complice di coloro sui quali doveva esercitarsi.
Ciascuna delle consorterie più potenti, che facevano capo agli Orsini, ai Colonna, ai Caetani, aveva il suo esercito di "bravi", i suoi castelli, i suoi fortilizi e la sua "ragione di Stato". Fomentavano sommosse, tramavano complotti, aizzavano il popolino sempre pronto a scendere in piazza e a menare le mani per un tozzo di pane. Le lotte di fazione erano l'unica industria fiorente in una città priva di fabbriche e dedita esclusivamente alla pastorizia e al minuto commercio. Tagliata fuori dalla grande rivoluzione comunale, l'Urbe mancava di una borghesia mercantile e imprenditoriale capace d'inserirla in un circuito economico vasto e dinamico, com'era avvenuto a Firenze, a Milano e nella maggior parte delle città del Nord. La plebe viveva d'elemosine, i nobili di rendita e di rapine, il clero di decime, di usura e di simonia.
Col trasferimento del Soglio ad Avignone molti tesori e capitali avevano preso la via della Francia. Quando Gregorio XI decise il ritorno a Roma, le finanze della Chiesa erano in pieno dissesto e non potevano certo contare sulle risorse di una città che non ne aveva punte. Ma in compenso c'erano quelle, tutt'altro che trascurabili, dello Stato Pontificio: vasto territorio che comprendeva tutto il Lazio e larghe fette dell'Umbria, delle Marche e della Romagna, inglobando una trentina di città , governate da Legati. Esso vantava inoltre diritti feudali sul Regno di Napoli e sui beni matildini di Toscana, che si traducevano in oboli e tributi, ma per riscuoterli i Pontefici dovevano spesso ricorrere alla minaccia di scomunica. Quando anche questa si rivelava inefficace, facevano appello alle milizie mercenarie, perché di regolari la Chiesa non ne aveva e le poche guardie che i Papi tenevano nell'Urbe bastavano appena quando bastavano a difendere il Vicario di Cristo dalle violenze dei nobili e dai tumulti del popolo.
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